venerdì 26 giugno 2015

When That Thing Singing Songs In My Head Is ... Me

With the intent of expanding what one my friends​ called "a midnight philosophy blast", I was just thinking about how I could explain more thoroughly what I meant saying I'd rather discourage letting anyone (especially children) think they are above average.

You know, I guess there are loving parents with lucky children whose self-confidence is boosted on a daily basis through comments on how good they (children) are, how they (parents) feel so lucky for having that specific kid as a child, what a great pupil / student they (children) make and no one else could compare...

As well as this, I do guess there are rough parents with pitiful children whose self-confidence is blown up on a daily basis through comments on how bad they (children) are, how they (parents) feel disgraced because of such a useless presence at home, how poorly they (children) perform at school / college whereas that other pupil / student is so good...

And then, I guess some of those lucky children, whose parents are loving and caring, will eventually succeed in their lives. With so much self-confidence and support, they will certainly achieve anything they'd like to.

As well as I guess some of those pitiful children, whose parents bring them up as they were shooting Full Metal Jacket at their very home every single day, will achieve much less than what they might have been supposed to because their self-confidence is low and they lack the necessary support.

On the other hand, I do also guess that some of the above-mentioned, pitiful children will make a masterpiece out of their unlucky childhood. With all that screaming and yelling and having insults thrown up at them every single day, I suppose they'd do anything they could to prove those yellers wrong.

And what about the lucky children? Who should they prove wrong? Who should they blame for the yelling and the throwing up of insults? There's nobody to blame. Nobody to fight. There's just support. And with support comes expectation. And how would they deal with disappointment? How would they handle poor performances? Is their self-confidence so high that they can take any let-down the right way and make a masterpiece out of it, given their life is allegedly a masterpiece already?

Well, as for my personal experience, I'm a member of the "loving parents-lucky children" group. And I was even luckier, if possible, given that the disappointment/expectation part was never mentioned, as if it didn't even exist. It was as if I could never, ever, disappoint anybody. It was as if I could never, ever, not meet someone's expectations.

But as in the yin and yang thing, I also guess we all need a balance between "everything is so perfect/you couldn't do better" and "look at what a disaster of a person you are", so I did gain my balance, but perhaps in an unhealthy way. I set myself to be my own yeller. I tried my best to make a Full-Metal-Jacket-everyday-shooting out of my life. And, as a result, I got my own judge, my own rough parent, the one I was supposed to prove wrong. Funny thing is, how could you possibly fight against yourself? If the yeller is you, how are you supposed to prove yourself wrong? There'll always be that sullen voice in your head telling you to give up, to stop trying, to not even dare think you could make it. And, even worse, to tell you there'll always come a time when you won't be successful and others will overcome you and you'll just make a fool of yourself. That devilish voice singing to you lullabies, which are quite different from nursery rhymes. This voice's lullabies' lyrics, and, remember, it's your personal yeller's voice, not an actual rough parent's, are far from providing comfort of any kind. They will tell you about what a failure you are even if you fail just once. They'll tell you that if you make a mistake there'll be no turning back. They'll tell you that if you fail once, you've failed forever. They'll tell you you'll never make it to the end. They'll tell you that you're worth nothing, that even Jon Snow knows better than you do. They'll tell you that all those supporting and boosting your self-confidence are liars, that you'd better not listen to them 'cause they know nothing (more nothing that you and Jon Snow put together).

How are you supposed to fight back against such voices? It's your own voice. There's no fighting back. It's a CD 50 challenge and you're just a simple 4 LVL Monk. Holy cow, no way.

So, no matter how loving or rough your parents are; no matter how lucky or pitiful a kid you are; those voices in your head are the worst (and hardest-to-defeat) enemy you could find. And, as per what I have learnt by far, you can try as hard as you can, but you'll never defeat it completely.

Some could say: try harder. Yet, that is not what I say to that voice today. Maybe tomorrow. But not today.

giovedì 17 luglio 2014

Prendi e vai. Il mondo è qui per essere visto e vissuto

E allora, che ci facciamo tutti ancora qui? 

Un attimo, direte voi, e adesso:
a) questa da dove spunta
b) a chi sta parlando
c) perché, dove dovremmo essere altrimenti.

a) Spunto da un punto molto sperduto, in cima a tutte le alture possibili che mai vi immaginiate riescano a raggrupparsi attorno a una cittadina, e in realtà so che c'è un gran mondo là fuori che grida: "Aiuto! C'è nessuno? Perché nessuno mi bada?"

b) Sto parlando a tutti. A tutti coloro i quali hanno voglia di ascoltare, almeno. 

c) Dovremmo essere dove ciascuno ha voglia di essere. 

Ecco, allora, se qualcuno ha anche voglia di restare qua, perché non glielo lasci fare in pace? Vero, avete ragione, potrei. Eppure. 

Eppure non mi va di farmi i fatti miei e di lasciarvi in pace con questo piccolo ma meraviglioso mondo che può aspettare chiunque abbia un po' di fegato per prenderselo. 

Siamo sette miliardi, ok, il mondo tanto piccolo non è, un po' meno ok, spesso non è solo questione di fegato, d'accordo. Ma lasciatevi dire una cosa: l'ho provato sulla mia pelle. Il mondo può essere una cura. 

La frenesia di Londra, nonostante tutto, mi ha fatto scordare certi eventi spiacevoli, magari insignificanti, ma non per un'adolescente ancora un po' disorientata.

Parigi mi ha rubato l'anima. Una città che, nonostante non volessi aspettarmi troppo, mi ha rimproverato e mi ha insegnato a respirare la bellezza e la raffinatezza. Nonostante non volessi aspettarmi troppo.

Berlino mi ha insegnato la storia. Non c'è città più educativa di Berlino. Beh, Roma è Roma, niente da dire. Ma si tratta delle mie città, come per Ungaretti si trattava dei suoi fiumi, e purtroppo Roma ancora manca. Berlino no, Berlino c'è. C'è stata e sempre ci sarà.

Colonia. Non ci sono parole. Colonia mi ha insegnato a essere una profuga (uno stendipanni, due sedie, un tavolino, una bacinella e una lampada TUTTO in una volta). Mi ha insegnato a fare sport, a sentirmi strana, a sentirmi felice. Mi ha insegnato a pensare a me stessa e a imparare che, ovunque vada, io i posti li devo esplorare. A costo di perdermici. A costo di scoprire che, poi, girato l'angolo, comunque sei a casa.

Chapel Hill mi ha insegnato a essere sola al mondo. A star sola al mondo e sopravviverci. Anche quando solo non sei più (e sono felice, ed è dir poco, di poter affermare che sola non sono - e chiaramente non lo sono mai stata), essere così lontani da tutto e non avere un punto di riferimento immediato sono comunque delle importantissime lezioni che il mondo ti può insegnare. Questa lezione a me l'ha insegnata Chapel Hill.

Mariefred mi ha insegnato quanto piccolo è il mondo (ma questo l'ho capito dopo, nonostante l' "un po' meno ok" di prima). E ad amare i laghi. Tutti. 

Queste sono le mie città. E io che volevo esortare tutti ad andare e scoprire!

Beh, il mio messaggio rimane lo stesso. E in realtà questa manfrina sulle mie città serve un po' a tale scopo. Penso che si possa in questo caso dare un po' di credito a Ungaretti così come sono riuscita a darlo a Dante. La vita di una persona può anche essere costituita da presenze geografiche.

E in fondo è proprio quello il motivo per cui, con una gran dose di fortuna, eh!, ho cercato di vedere del mondo quello che ho potuto. Ci sono posti che hanno inciso di più e posti che hanno inciso di meno. Ma tutti, in un modo o nell'altro, sono serviti. E quindi, quello che volevo dire è che il mondo può fare tanto. Ci può cambiare, ci può aiutare, ci può guarire. 

E quindi, quello che volevo dire è che, quando si può, bisogna andare, vedere, vivere.

mercoledì 19 febbraio 2014

Su una cosa aveva ragione Dante

Stavo tranquillamente scrivendo per i fatti miei, una di quelle mie sedute grafoterapiche, come piace chiamarle a me, per il mio solo beneficio e, a volte, per svuotare il cervello. Certo, ultimamente uso questi momenti di ispirazione più per cercare di conoscermi meglio, e di solito dopo che una tempesta ha sconvolto le mie capacità intellettive, per fare il punto, per mettere nero su bianco certe conclusioni. Vero, anche prima usavo questi momenti come presa di coscienza di me stessa, ma di recente sono più un fine che un mezzo, una cartina di tornasole per mettere dei punti fermi nella mia esistenza, visto che ultimamente mi sento un po' all'arrembaggio e la pirateria non è mai stata il mio forte.

A ben vedere, definendo queste sedute cartina di tornasole, forse sono comunque uno strumento, di certo però rientrano nella parte finale della presa di coscienza di sé, mentre all'epoca lavoravano nel pieno della catena di montaggio dalla quale sarebbe saltata fuori la nuova me.

La cosa interessante è che stavo appunto scrivendo for my own sake quando mi sono lanciata in considerazioni più generali, su due argomenti che mi piacciono un sacco: linguaggio e pensiero. Non a caso, ho per un certo periodo sognato di diventare filosofa ermeneutica, ma tant'è. Scrivendo per me stessa, cercando conferme della mia ultima evoluzione esistenziale, dicevo, ho intrapreso un'elucubrazione che -modestia a parte- mi viene da definire alquanto interessante. Tutto risale agli ormai più che remoti anni del liceo, quando una delle mie prof. preferite, ovviamente quella di italiano e latino, usava spiegarci la Divina Commedia, senza che però io ne risultassi mai troppo convinta. Era un periodo in cui amavo questionare, ancora più che adesso, un periodo in cui difendevo le mie idee con le unghie e con i denti. Il mio personale, e certamente anticipato, '68 del XXI secolo. Allora, appunto, Dante e io non andavamo molto d'accordo. Mi ha sempre dato l'impressione di essere uno che voleva saperla lunga, apparentemente senza alcun titolo per farlo, se non un'accesa fantasia e molta, molta ispirazione. Tuttavia, su una cosa sola riuscivo a trovarmi in sintonia con la sua opinione. E proprio questo è il succo di ciò che è saltato fuori dalle mie considerazioni sull'ultima tempesta da poco placatasi nella mia scatola cranica.

Il contesto in cui queste riflessioni sono scaturite dipende da quanto credito possiamo e siamo in dovere, o nelle condizioni, di dare a un giudizio altrui su noi stessi. Dicevo (e cito me stessa):
"Per rimediare, occorre, anzi no, per prevenire, occorre, dicevo, essere più riflessivi, meno impulsivi, e digerire meglio le cose prima di offrire un boccone all'altro. Sono un po' americana in questo e mi sento che se non si ha subito la risposta pronta si fa la figura degli idioti, ma riflettere non significa non avere un'opinione o non sapere cosa dire o non avere capito. Significa essere più sensibili, o sensati, e saper dire una cosa ragionevole, attendere il momento in cui il concetto è finalmente formulato bene ed esprimerlo di conseguenza. Ho sempre dato ragione a Dante solo su una cosa: non siamo capaci di esprimere mai quello che pensiamo esattamente come lo pensiamo, saremo sempre fraintesi o parzialmente incompresi, perché le parole spesso non eguagliano la complessità del pensiero[;] perché per esprimere un guizzo personale, spesso non conforme a realtà prestabilite, dobbiamo ricorrere a strutture invece concordate, preconfezionate, pena l'essere eternamente incompresi. La cosa buffa è che lo saremo sempre e comunque, perché se è vero quello che sosteneva Dante, allora il contenuto della nostra mente sarà sempre incompatibile, almeno in parte, con la forma che ci è concesso dargli tramite le risorse linguistiche a nostra disposizione. E questo ci farà sempre e comunque restare almeno in parte incompresi. La soluzione? Beh, a meno che non si diventi tutti innovatori, è difficile attualmente, o comunque in tempi brevi, modellare nuove forme convenzionali del linguaggio affinché si adatti ai nostri pensieri, i quali, in quanto noi individui singoli, unici e distinguibili, saranno pari almeno al numero di abitanti della Terra, perché credo che non sia rischioso affermare che ogni essere umano, nei limiti delle proprie capacità [come li percepiscono gli] altri -perché poi magari non è mica detto che anche chi è affetto da certe patologie [che affliggono] il pensiero non [sia] in grado di pensare- [non sappia pensare. I]nsomma, [… credo possiamo reputarci] tutti in grado di formulare almeno un pensiero in tutta la nostra esistenza, indipendentemente dalla nostra età e da quelle eventuali condizioni mentali che si dice possano limitarci in qualche modo. Per cui, appunto, a meno che fossimo in grado di formulare un pensiero ed esprimerlo con un linguaggio o, meglio, uno strumento, non convenzionale, intelligibile [però] a tutti, ma proprio a chiunque, allora, ahimé, temo resteremo sempre, in parte, incompresi. E allora che fare? Beh, mi viene da dire che l'unica risposta sensata che riesco a trovare a questa domanda è: take a leap of faith. Insomma, se non abbiamo validi motivi per non fidarci di quello che ci dicono le persone, specialmente le persone care, [il che rende l'eventualità ancora più remota -almeno in teoria] l'unica cosa da fare è fidarsi, essere sicuri che non tutto, [che] la maggior parte delle cose che ci vengono dette, specie se sono positive, sono dette solo come contentino. A meno che non ci siano gravi motivi per cui agire diversamente sarebbe altamente deleterio per almeno una delle parti e a maggior ragione se si sa di essere di fronte a una persona schietta, beh, allora it should be a more than justified leap of faith."

Detto ciò, non ho affatto la certezza di aver parlato per la maggioranza e, anzi, trovo la mia posizione più che opinabile. Ma, d'altronde, se non lo fosse, non persevererei a postarla qui, per quanto poco o abbastanza o molto interessante la si possa trovare. 

Thank you for spending some time on this page!

martedì 11 febbraio 2014

Looking From Another Perspective

After reading "15 Food Reasons Italians Are Better At Life", here are 8 good reasons why I don't find this totally convincing.
Please, let me make a short foreword before going into the details. My comments to the article are totally personal and there is no intention to offend nor to judge. There may be a slight intention to be satyrical but it doesn't go any further than that.

1. "...hot-blooded country..."
   What I('d) call "stereotype n.1". Overreacting is not as much a national sport as anywhere else.

2. "...the greatest way to use lady fingers..."
   What I('d) call "stereotype n.2". Some men are just as good at that.

3. "...why we should all just up and move to Italy." 
   Please, don't. We love, we really do, to have you here but there is not that much empty space left and we already build houses where we really should not. 

4. "...Fresh Pasta …'s a way of life." 
    It is, if you're a granny with a lot, and I mean, a lot of time (and patience) to spend making it and  perhaps another great lot of relatives to nurture.

5. "...Freeze-Dried Parmesean"
   Don't let us fool you, some use it here too.

6. "...Leftover Risotto To Good Use … almost better than risotto."
   Arancini (aka arancinE) are not just a not-wasting-food shortcut. Arancini/E are indeed a way of life, they are usually made from scratch, and are a regional delicatessen.

7. "...3-4 Hours To Make A Ragu..."   
    Too bad most people don't have so much time to spend in the kitchen anymore. Even if some are brave enough to do it on special occasions.


8. "...fry them beautifully..."
    I daresay some know an awful other lot of ways to cook artichokes without frying them. 

Again, please, accept my apologies in case I've sounded too harshly criticising. This is just the way I felt when reading the article. It'd be great to listen to further comments or criticism.




giovedì 6 febbraio 2014

La voce di un libro

Ho per le mani uno di quegli oggetti che più rendono interessante la mia esistenza terrena. Un libro.

Intanto vorrei subito correggere il lessico improprio utilizzato poc'anzi, il quale si pone in relazione di estrema incongruenza con la specificazione successiva. Ho osato definire un libro un oggetto. Vorrei infatti precisare che tutto considero un libro tranne che un oggetto. Gli oggetti hanno tante caratteristiche che, per puro caso, probabilmente condividono con i libri, e sono quasi certa che per la grammatica italiana un libro possa essere benissimo considerato un oggetto. Ma sono altrettanto sicura che per me sia tutt'altro. Può darsi che un libro non sappia respirare, non sappia sentire, non sappia parlare. Quantomeno fin quando consideriamo queste capacità in termini umani. Un libro è privo di polmoni, di organi sensoriali e terminazioni nervose, di corde vocali. Eppure... Eppure un libro è in realtà capace di fare tutto quello di cui sopra.

Tornando al primo punto, ovvero il motivo per cui sono fisicamente impossibilitata a considerare un libro un oggetto, vorrei presentare un'insolita situazione. In effetti è un concetto semplice, un semplice avvenimento che mi accade a volte quando entro in un luogo pieno di libri: spesso succede che mi senta chiamata da uno di questi. Ok, ok, sembra inconcepibile. Un libro è grammaticalmente un oggetto e probabilmente lo è per la maggior parte di noi. Ma io vi assicuro che quello che mi faceva compagnia fino a pochi istanti fa mi ha proprio chiamata.

Non rivelerò adesso di che libro si tratta, vorrei piuttosto dirigere la vostra attenzione su un'espressione in particolare che ho appena usato per riferirmi al mio rapporto con il libro di cui sopra. Questo libro mi faceva compagnia. E adesso giù con il dire che sono frasi fatte, banalità, l'affermare che non ho per nulla inventato l'acqua tiepida. Vero. Tanti sono coloro i quali credono che un libro possa essere un amico, possa essere più che un ammasso di carta a volte colorata e forse un po' puzzolente -a meno che non si ami il libro in questione, e allora diventa un'incomparabile fragranza- e che, insomma, sia più di un semplice oggetto. Il punto è che io non lo considero affatto un oggetto.

Che la sua manifestazione fisica corrisponda a quello che grammaticalmente - e poi, sempre che non prenda una cantonata colossale, grammaticalmente per il popolo italico; sono quasi certa che non tutte le culture la vedono allo stesso modo, oppure, se volete, passatemi il lusso della speranza che le culture mondiali siano talmente varie che anche le idee di oggetto e di grammatica possano variare da una latitudine a un'altra- è un oggetto è solo una constatazione. Che quello che si manifesta fisicamente e corrisponda -per noi- grammaticalmente a un oggetto è un'opinione generale. Ma proprio perché un libro non è -in questo caso, per me- un oggetto, quella generale non può essere quella che abbraccio personalmente. E questo proprio perché è il libro che, di solito, mi chiama. Lo so, somiglia un po' alla storia delle bacchette che scelgono il mago, va bene, però vi spiego anche perché arrivo a pensarla così.

Quando ho deciso di compiere una follia e arricchire la mia biblioteca del libro con il quale mi stavo intrattenendo poc'anzi, ho preso la mia decisione in seguito a un impulso irrefrenabile. Si può confondere con quell'impulso che attrae le donne a un vestito o a qualunque cosa dia loro la possibilità di spendere soldi -o, a detta delle donne, me compresa- a concedersi una seduta di shopping-terapia. Ma non è la stessa cosa. E una banale conferma di ciò è il fatto che lo stesso mi accade in una biblioteca pubblica. Non sono io che scelgo il libro. È il libro che chiama me. È come se quel determinato volume mi conoscesse, mi RIconoscesse e sapesse con certezza di essere quello che fa per me. Perché? Beh, perché ha un titolo accattivante, l'ha scritto un autore sconosciuto anche da se stesso, è ambientato a Parigi, racconta una storia struggente e densa, rappresenta una vita. E proprio questo è il punto di partenza di un'ulteriore spiegazione del perché non considero un libro un oggetto.

Dietro a ogni singola pagina, oltre le persone che hanno contribuito con il loro lavoro a rendere quel libro in tutto e per tutto simile a ciò che per noi è un oggetto dal punto di vista fisico e grammaticale, ci sono numerose altre vite, mille respiri, sospiri disperati, sensazioni, emozioni, esperienze, avvenimenti, insomma, niente che abbia a che vedere con un oggetto fisico e grammaticale. Sarà un portare il tutto agli estremi, ma oltre allo sforzo creativo dell'autore, la prima persona dietro a questo oggetto-nonoggetto, c'è la vita del narratore, che ho imparato non sempre corrisponde a quella dell'autore, e c'è quella di tutti i singoli personaggi (fino ai più insignificanti), tra i quali non è detto sia compresa quella del narratore. Un libro è quindi respiri, pensieri, parole, azioni, conscio e inconscio, sogno e realtà, movimento, silenzio, passione, dolore, gioia infinita, solitudine e mille altre cose ancora. Ed è per questo che non è strano che sia il libro a chiamare me e non io a scegliere lui. Certo, il suo titolo, la sua copertina, che sono i dettagli su cui nella maggior parte dei casi si basa la mia decisione ultima, non sono opera del libro stesso. Il libro stesso non è opera di se stesso. Tuttavia si può vederla in un modo curioso. È come se un po' della vita che ha dato vita a quel libro ci si fosse trasferita e quel libro, un libro, sia in grado di respirare, sentire e parlare, così come quelli che contiene, così come quelli che l'hanno creato.

Il libro con cui mi intrattenevo prima di sentire l'irrefrenabile impulso di rubarvi un po' di tempo e informarvi di questa mia visione dei fatti, forse non così rara ma che mi piace considerare personale perché queste sono le parole che ho scelto per esprimerla io e non un'altra persona, mi ha chiamata per la combinazione di cui sopra, e per la concorrenza di un altro fattore, aka il volume del libro e, nonostante abbia rappresentato una spesa non poco consistente, non potevo ignorare la chiamata. Anche se ammetto che ultimamente i libri tendono a giocarmi brutti scherzi e a lasciarmi un po' delusa, e in piena crisi esistenziale, visto che -nonostante ne abbia il diritto- smettere di leggere un libro è una delle violenze più brute che possa fare a me stessa, generalmente i libri mi conoscono bene.

Tutto questo risponde davvero a un impulso istintivo, oltre che a un'assenza dalla tastiera un po' prolungata. Ma aspettavo di avere un'idea da sviluppare che non fosse una storia da raccontare. Nonostante abbia stupito me stessa e sia stata in grado di trovare l'ispirazione per delle storielle, con più o meno successo, questo sta a voi deciderlo e a me rimettermi alla vostra decisione, quello di cui su questo blog volevo scrivere erano proprio idee, riflessioni, conclusioni, opinioni, espresse in quelle forme dette inaccettabili per una tesina d'esame.

E per concludere questo sconclusionato discorso sui miei amici libri, un libro, per quanto lo possa ricordare fisicamente e -per noi- grammaticalmente, non è affatto un oggetto. Un libro è vita, sono tante vite che respirano, sentono, parlano. E mi chiamano.

martedì 17 dicembre 2013

Emozioni di carta

L’ennesima bolletta. Ancora? Ma non finiscono mai? Ma mai nessuno che scriva una lettera, usando carta e penna se non, addirittura, carta, inchiostro e calamaio? E magari anche una bella ceralacca? No, nel tempo allora presente più nessuno scriveva lettere. A che servivano? Le emozioni ormai viaggiavano su sentieri invisibili, ineffabili, lungo vie immaginarie, senza odore né personalità, tutte uguali, indistinguibili a tal punto che non importava più chi fosse a scrivere, a volte nemmeno più cosa, ma in quanto tempo il messaggio –fosse anche un insulto– riusciva a giungere a destinazione.
E poi quel giorno mi svegliai con una strana sensazione. Mi era già capitato, quante volte mi era capitato! Una strana sensazione che pervadeva ogni nervo, ogni capillare. Una sensazione che mi faceva battere forte il cuore, perché quel giorno qualcosa sarebbe capitato, qualcosa di diverso, qualcosa di inaspettato o, piuttosto, qualcosa di atteso per anni, un evento che finalmente si sarebbe verificato, rendendomi incredibilmente felice.
Ma per quanto bella e nuova e ogni volta travolgente fosse quella sensazione, puntualmente rimanevo deluso. Alla sera, quando appoggiavo la testa sul cuscino, mi rendevo conto che ormai il tempo era scaduto, che quella sensazione non paventava niente di speciale, certamente non un bel sogno che avrei potuto fare durante il riposo. Di sogni ne facevo tanti, a occhi chiusi e, ancor di più, a occhi aperti. Un sogno non sarebbe certo stato nulla di nuovo, né di speciale. Per questo, mi ero anche abituato a non fidarmi più di questa travolgente sensazione. Perché dare fiducia a un istinto che però non ci azzeccava mai? Perché abbandonarsi al piacere che precede la degustazione di un evento tanto atteso e finalmente giunto che però, alla fine, non si verificava comunque?
Per questo, anche quel giorno, appena percepii quella sensazione, mi resi anche conto di quanto fosse foriera di disillusione, di tristezza, di malinconia. Quella sensazione, nonostante mi facesse gioire per un avvenimento prossimamente futuro, portava anche o, piuttosto, portava solo, una nuova ondata di nostalgia. Per questo, anche quel giorno, non mi volli fidare di quella sensazione sibillina. Mi svegliai. Decisi di rimanere al caldo delle coperte ancora un po’, in attesa del momento in cui –come anni di laboratorio teatrale mi avevano insegnato– mi sentivo veramente pronto a compiere un certo passo, in quel caso, ad alzarmi. Finalmente il momento giunse, mi alzai e cominciai la routine mattutina. Ancora non sentivo niente di strano, il che era ancora più strano, perché normalmente quella sensazione mi coglieva nel primo momento del risveglio. Non potevo sospettare nulla, perciò mi rassegnai tranquillo –quella era dunque una giornata fortunata– a vivere l’ennesimo giorno un po’ vano, senza un programma preciso.
E poi la sentii. Ero in cucina. Il caffè era appena uscito e percepii una strana palpitazione. Sapevo di non dover assumere caffeina, negli ultimi tempi sembrava soffrissi di pressione alta, nonostante il mio problema fosse quasi sempre stato il contrario, ma da un po’ di tempo a quella parte non riuscivo a dire no a una tazzina di caffè, almeno alla mattina. E comunque, quello che mi lasciò stranito fu il fatto di aver percepito la palpitazione ancor prima di avvicinare la tazzina alle labbra. Possibile fossi diventato così intollerante alla caffeina da farmi venire la tachicardia ancora prima di assumerne? Al solo odore di caffè appena fatto? Per quanto strano fossi, di questo ancora non ero capace. E poi, dopo qualche istante, la riconobbi. Capii che quella era la famosa sensazione che mi coglieva di tanto in tanto e che cercava sempre di ingannarmi, o forse era solo il mio spirito di sopravvivenza che stimolava la mia psiche a produrre un simile stato d’animo, quantomeno per poter sperare in qualcosa di diverso, per godere almeno dell’apparenza di una svolta, fino al momento del riposo, che infine mi rivelava la vacuità di quello stato d’animo per cui però ero comunque grato, avendomi permesso di sopravvivere all’ennesima giornata e rendendomi tollerante per la monotonia dei giorni a venire.  E siccome ero preparato al peggio, coltivai quella sensazione, la assaporai, mi ci buttai a capofitto, sperando follemente che qualcosa di nuovo sarebbe finalmente successo, che la mia vita, la mia (non-)routine avrebbe quel giorno subito una forte scossa. Contemporaneamente, però, mi ricordavo che dovevo godere di quello stato d’animo con moderazione, per non illudermi troppo che qualcosa di nuovo sarebbe successo. E mi ricordai anche che, se mai qualcosa di nuovo fosse successo, dovevo stare attento a gioire di qualunque cosa fosse, fosse anche una scossa quasi impercettibile. Se mai quella sensazione, quel giorno, fosse stata realmente foriera di novità, avrei dovuto apprezzare la novità, anche se non si fosse trattato di qualcosa di eclatante. Anche se avesse causato solo una piccola scarica di adrenalina.
Portai la tazzina alle labbra. Attesi prima di bere il primo sorso e mi feci pervadere dall’odore del caffè appena fatto, uno dei miei odori preferiti. Poi bevvi. Mi sarei aspettato un attacco di tachicardia improvvisa, vista la sensazione che già mi girava in corpo e la caffeina che avrebbe fatto effetto di lì a poco. Tutto rimase com’era, però. La sensazione continuava a pervadermi e la caffeina decise che quello fosse abbastanza, che per quel giorno avrebbe semplicemente deliziato le mie papille gustative senza aggiungere effetti collaterali.
La giornata passava tranquilla. Non avevo molto da fare, qualcosa sì, giusto per avere la sensazione di tenermi occupato, tuttavia non era niente di importante. E nonostante tutto la sensazione era talmente forte da scollarmi dalla sedia. Non riuscivo a stare fermo, sapevo che qualcosa sarebbe presto accaduto. La razionalità che avevo guadagnato al mattino sembrava essersi dileguata, lasciandomi lì da solo con uno stato d’animo che mi tendeva come una corda di violino. Scattavo al primo rumore e, quando il gatto comparve dal nulla sul tavolo al quale stavo seduto, la sua coda aveva assunto lo spessore del mio braccio e solo dopo qualche istante mi resi conto di essere letteralmente saltato sulla sedia alla vista del felino, facendo prendere un coccolone anche a lui.
‘Ma cosa mi prende? Possibile che non riesca a controllarmi? Sono qui seduto da ore, ho controllato tutti i mezzi di comunicazione ai quali sono reperibile, niente di nuovo sul fronte occidentale, e allora perché scatto così? Non succederà niente, non ci sono indizi che qualcosa sia in procinto di accadere, solo quella solita sensazione ingannatrice alla quale non devo assolutamente dare ascolto.’ Eppure, quella nuova ondata di razionalità non mi placava. Sentivo di dovermi muovere. Non mi piaceva correre, perdevo il fiato in cinque minuti e non mi avrebbe scaricato abbastanza. Ma potevo camminare. Non avrei avuto molta strada da fare; a me che piaceva perdermi per vicoletti e stradine secondarie vuote e inesplorate, il posto dove abitavo risultava troppo scoperto e facilmente percorribile. Tuttavia non potevo stare fermo. Non mi sarebbe giunta alcuna novità via etere, perché sapevo che –per quanto qualcosa potesse anche succedere– non si trattava di niente di multimediale. Per questo ero ancora più confuso.
Mi risolsi a uscire. Decisi di coprire l’intera distanza percorribile a piedi. Mi infilai le cuffie e partii. Ascoltavo la musica e mi lasciavo trasportare dal ritmo. Cambiavo andatura a seconda del ritmo. Era una delle poche attività che riuscivano a scaricarmi quando ero teso. E camminavo.
Come prevedevo, non mi ci volle troppo tempo a percorrere tutti i sentieri più reconditi, oltre alle vie palesi, della piccola città. Niente aveva attirato la mia attenzione in particolare. Anche di questo ero consapevole ancora prima di intraprendere la passeggiata, perché sapevo che nemmeno di quella natura sarebbe stato l’evento nuovo.
Ma allora, cosa? Ormai avevo terminato le ipotesi plausibili, e anche quelle non plausibili. Avevo già scritto un paio di sceneggiature da Oscar, tutte a mente, ovviamente, ed ero soddisfatto perché almeno quella notte sarei riuscito a dormire, avendo portato a termine il mio dovere di screenwriter immaginario –e non pagato– durante la giornata. Ma nonostante questa rassicurante constatazione, non ero tranquillo. Mi sentivo inquieto. Era questo, piuttosto, a rendermi sereno, stoicamente rassegnato. Perché sapevo che erano i sintomi di quella sensazione che aveva deciso di farmi compagnia per la giornata e che poi mi avrebbe abbandonato, con un po’ di amaro in bocca, alla sera.
Tornai a casa, impercettibilmente più scarico, ma affatto meno all’erta di prima. Poteva sembrare un paradosso, ma anche questo era effetto dell’ingannevole sensazione.
Arrivato al cancello, mi resi conto che nessuno degli altri abitanti della casa aveva ancora controllato la cassetta della posta. Uno non usciva praticamente mai dal cancello principale e l’altro aveva la chiave ma di solito non la tirava fuori  perché chissà dov’era finita. E allora lo feci io. Come sempre. Alzai il coperchio. Buttai un occhio per verificare se la cassetta fosse piena o vuota. Come sempre, mi affidavo al riflesso della parte anteriore sul dorso della cassetta. Quando lo vedevo pieno, anche in quei momenti mi coglieva la stessa sensazione di attesa. Per questo, anche se questa volta lo vidi pieno, non ci feci particolarmente caso, perché la sensazione mi aveva colto già. Tuttavia, percepii una nota stonata in quello stato d’animo così invasivo. O meglio, un acuto. Afferrai il contenuto della cassetta. Al primo tentativo mi cadde di mano, precipitando nuovamente sul fondo. L’impazienza era ancora più percettibile, potevo quasi vederne l’aura circondarmi tutto. Riprovai. Questa volta la presa era più sicura e il contenuto della cassetta rimase stretto tra le dita e il palmo. Lo tirai lentamente fuori. Notai che, nonostante la forma somigliasse a quella di una bolletta o di una di quelle comunicazioni un po’ fumose da chissà quale organizzazione, la busta aveva una consistenza particolare. Anche il colore era insolito. Una busta spessa, di color avorio, con leggere venature più scure. Quasi marmorea. Poi, sul retro, che era la faccia della busta rivolta verso il mio sguardo, notai una strana macchia. Era informe, sembrava in rilievo, ed era di colore rosso sangue. C’era anche un simbolo sopra, sembrava un felino dalla posa regale. Un leone, forse, o una creatura mitologica. Girai lentamente la busta, e scorsi una scritta fitta sulla parte destra. Diverse righe di testo dalla calligrafia sorprendente che sembravano essere state tracciate con un pennino e un inchiostro nero e denso. Sulla prima riga leggevo il mio nome, per intero, e sotto l’indirizzo e tutto il resto. Ancora non volevo cedere, pensavo si trattasse comunque della comunicazione di una qualche organizzazione, solo un po’ più fantasiosa delle altre.
Mi resi conto che stavo congelando. O meglio, stavo perdendo pian piano l’uso della mano destra. Così decisi di entrare in casa, per contemplare al caldo quello strano oggetto. La sensazione, intanto, continuava a pervadermi, ma sembrava quasi prendersi gioco di me. La sentivo crescere come in una risata fragorosa. Sembrava sul punto di urlare, di urlarmi contro che quella volta aveva ragione, persona di poca fede che altro non sono! Ma non volevo cedere. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Mi sembrava troppo incredibile perché quella sensazione, quel giorno, mi avesse colto con un motivo, che quel primordiale istinto quel giorno fosse corretto.
Salii le scale. Non mi precipitai alla porta dell’appartamento con furia. Contemplavo quella che avevo ormai capito essere una lettera e mi ascoltavo. Ascoltavo con attenzione le emozioni che si avvicendavano dentro di me. Cercavo di gustare le mie reazioni come fossero un manicaretto di quelli di cui ero tanto goloso. Ed era una delizia.
Come prima cosa, avevo scartato tutte le reazioni negative. Pensieri quali ‘Ma non è quello che ti aspettavi!’, ‘Guarda che non c’è nulla per cui gioire davvero!’, ‘Stai sereno che non è nulla di strepitoso!’ avevano subito fatto capolino nella mia mente. Vedevo le parole scolpite su un marmo simile a quello di cui sembrava essere fatta la busta. Ma avevo anche proceduto alla distruzione di quella statua, avevo scagliato quel colpo che aveva reso inguardabile quella creazione marmorea così perfetta nella sua negatività. Non volevo fosse perfetta. La negatività non lo è mai.
Il titanico sforzo rese possibile la gioia delle ore successive. La prima cosa che realizzai fu che, finalmente, qualcosa di bello, e atteso, era successo. Erano anni che attendevo una lettera. Ammisi di stare trattando quell’oggetto così atteso e prezioso come tutte le comunicazioni che arrivavano solitamente per vie eteree e invisibili, spersonalizzate e senza odore. Sembrava non mi importasse il cosa, né il chi, ma il come. E tuttavia, mi resi conto che non poteva essere niente di spiacevole e nemmeno provenire da qualcuno che mi voleva male. E, infatti, la mia seconda reazione positiva fu trattare quell’oggetto diversamente dalle comunicazioni ineffabili di allora. Lo avvicinai alle narici e inspirai. Inspirai quell’odore di carta vera. Lo feci più e più volte e, quando ne ebbi pieni i polmoni, lo esalai e mi dedicai alla ceralacca. La osservai attentamente, la scrutai per individuarne ogni più piccolo dettaglio. Ci passai sopra un polpastrello, delicatamente, ripercorrendo i contorni di quella che ormai mi ero reso conto essere la figura di un drago.
Questo fece scattare in me un interruttore, che accese la luce di un piccolo sgabuzzino nel mio cervello. Quando la porta di quel bugigattolo cerebrale si spalancò provai una sensazione familiare ma che avevo dimenticato. Ricordi di anni spensierati, di giornate con uno scopo, per quanto ludico, mi tornarono alla mente. Rievocai avventure immaginate, tracciate su carta, il cui esito era deciso da un tiro di dadi. Ripensai a ore spese a creare scenari possibili e non, nell’attesa di scoprire come si sarebbero comportati gli altri, con onestà o con furbizia, con nobiltà d’animo o con bieco egoismo. E risi. Una risata argentina, una risata fragorosa e piena di gioia. Bellissimi ricordi, di persone, oltre che di avventure, di momenti di gruppo, di risate e discussioni che finivano comunque a pacche sulle spalle e risate, mi travolsero e caddi seduto sul divano in preda a una gioia infinita.
Ma ancora non avevo aperto la lettera. Il mittente mi era chiaro, riconoscevo la ceralacca, non per averla mai vista fino a quel momento, ma per averne sentito parlare così tanto. Ma all’epoca di queste narrazioni quella ceralacca era solo un sogno, uno sfizio che, un giorno, quella data persona si sarebbe tolta.  Fui contento di vedere che qualcosa di nuovo, di diverso, poteva sempre succedere. Quando aprii la missiva, tra le mani mi ritrovai parecchi fogli di carta, una carta più sottile ma molto simile a quella della busta, marmorea e dallo stesso odore un po’ polveroso. La calligrafia era la stessa dell’indirizzo. L’inchiostro aveva intriso la trama della carta così a fondo da rendere le parole leggibili da entrambi i lati del foglio. Erano parole incoraggianti. Parole che, oltre a invitarmi fisicamente a una rimpatriata, mi invitavano anche ad assumere un atteggiamento nuovo. Parole semplici e dirette, come era solito nello stile del mittente, il che mi fece sorridere al fatto che alcune cose non cambiavano mai, ma che raggiungevano perfettamente lo scopo –forse ignoto a chi scriveva ma chiarissimo a me che leggevo– di rievocare emozioni perdute, ormai addormentate nei meandri della mia anima, ovunque essa si trovasse. Leggere quelle parole, scrutare quei tratti di pennino, mi fece ricordare quanto bene stessi quando quelle avventure erano all’ordine del giorno. Era esattamente quello di cui avevo bisogno.
Le ore che mi separavano dal riposo passarono veloci. Non risposi subito alla missiva, perché prima volevo godermi attimo per attimo ogni singola sensazione che un mezzo di comunicazione così démodé mi aveva provocato. E poi avevo molto altro da metabolizzare. Per questo, quando appoggiai la testa sul cuscino, cercai di ricapitolare la giornata. Per prima cosa, fui grato perché la sensazione mattutina non si era presa gioco di me ingannandomi nell’attesa di un evento che non si sarebbe palesato. Ma fui grato anche perché si era poi presa gioco di me ridendo a squarciagola e urlandomi ‘Te l’avevo detto! Questa volta ero arrivata per un motivo!’ E poi volli rivivere istante per istante la gioia delle ultime ore. Mi persi di nuovo a ricordare i pomeriggi insieme a ridere, discutere, ridere ancora, immaginare mondi e creature. Rividi i volti, ripensai alle speranze, tentai di indovinare quali fossero diventate realtà e quali no.

E poi mi addormentai, cullato da pensieri trasformati non in parole ma in emozioni, nelle emozioni di una lettera di carta.

mercoledì 4 dicembre 2013

Quel quid in più

Il mio quid è l'arancione.
Il mio quid sono le affinità elettive.
Il mio quid è l'essere un'inguaribile romantica.
Il mio quid è una passione smodata per gli oggetti di design Kartell.
Il mio quid è avere solo due rimpianti nella vita: aver smesso danza classica e violino.
Il mio quid è avere imparato a vivere per conto mio.
Il mio quid è entrare in cucina, aprire il frigo e prepararti una cena in un quarto d'ora.
Il mio quid è sognare di possedere una libreria molto vintage a Parigi.
Il mio quid è sentirmi un'artista lungo i vicoletti del Quartier Latin a Parigi.
Il mio quid è saper piangere di gioia, ma anche di dolore.
Il mio quid è cercare di sentire quello che sentono gli altri.
Il mio quid è amare l'odore dell'aria mattutina in primavera e in autunno.
Il mio quid è avere il pallino della Neverfull di Louis Vuitton, quella originale.
Il mio quid è pensare che in fondo la psicologia serva a qualcosa.
Il mio quid è pensare che in fondo si può essere psicologi di se stessi.
Il mio quid è amare le lunghe passeggiate chiarificatrici.
Il mio quid è amare i lunghi rooibos chiarificatori.
Il mio quid è pensare alla Luna e non poter dimenticare 'Canto di un pastore errante dell'Asia', e il povero Leopardi.
Il mio quid è avere paura del sublime e allo stesso tempo esserne affascinata.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare le nozioni del liceo.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare il tedesco e, se possibile, nemmeno il francese e il portoghese.
Il mio quid è essere pronta a trasferirmi in Scandinavia seduta stante.
Il mio quid è amare il caffè espresso, anche se reinterpretato, ma anche i Frappuccini di Starbucks.
Il mio quid è non voler leggere la Millenium Trilogy.
Il mio quid è aver visto 'Melancholia' e averlo trovato fascinosamente allucinante.
Il mio quid è aver visto 'Mood Indigo' e averlo trovato incredibilmente simile ad 'Alice nel paese delle meraviglie'.
Il mio quid è voler, un giorno, costruire la mia casa a partire dalla biblioteca.
Il mio quid è voler, un giorno, avere nella mia biblioteca tutti i libri che ho letto, AKA: gli amici che ho incontrato.
Il mio quid è amare le emozioni forti, positive e negative, pur di sentire lo slancio della vita.
Il mio quid è sapere che l'uomo è come un pendolo che oscilla tra desiderio e noia e deprimermi per questo.
Il mio quid è sapere quello di cui sopra e certi giorni non pensarci affatto.
Il mio quid è essere meteoropatica, ultimamente, però, al contrario, voglio le nuvole!


Mi piace pensare di avere più d'un quid. Chissà se è così. Mi piace pensare che ogni piccola cosa che mi distingue, che mi ha costituito finora, mi renda diversa da un altro essere umano. Ho sempre pensato di essere diversa, non migliore, ma diversa. Ho sempre sperato di essere diversa, non migliore, ma diversa. Ho sempre cercato di essere diversa, a volte migliore, ma soprattutto diversa.